Spesso preferisco stordirmi con video divertenti di animali, di gossip o di consigli medici di pediatri social, e mi affretto a scrollare via immagini di bimbi in mezzo a distruzione e sangue. I bimbi così non si possono vedere. Non si possono sopportare pensieri di donne abusate, uomini torturati, giovani che si tolgono la vita o che fanno atti talmente efferati da renderli inumani. Io non riesco più a stare al passo con le cronache di oggi, e così ogni tanto mi faccio uno shottino di video di persone che cadono o si fanno scherzi. Poi quando i miei bimbi si addormentano in braccio e li vedo belli, indifesi, morbidi, profumati mi chiedo perché loro siano così fortunati. Guardo al Cielo e chiedo di salvarne almeno uno, di quei bimbi non miei, in quel momento e quello dopo ancora, finché non mi addormento nell’angoscia, e se non ci riesco ricomincio ad ubriacarmi di fesserie leggere col display illuminato.
Cosa fare. Io ero una di quei giovani pronta a tutto per difendere la fede, per vivere nell’amore. Poi diventi adulto e quell’ardore, se non alimentato, comincia ad affievolirsi con i problemi quotidiani che ti portano mariti/mogli e figli. È da lì che devo ripartire per soffiare con forza sulla fiamma, prima che si affievolisca al punto da rimanere sullo sfondo. Le relazioni salvano. I miei figli devono uscire fuori e scegliere luoghi dove si respirano la speranza e la verità. La genuinità e la generosità. Una parrocchia, la scuola (?), una bella comitiva, una comunità… e un giorno un lavoro che rispecchi quello che sono. Io l’ho sperimentato.
Uno di questi luoghi è Sophia. Un luogo in cui si pensa all’altro veramente con cura, dove la premura per i più giovani è più urgente di qualsiasi convenienza di visibilità o difficoltà economica. Perché ciascun fuocherello dentro ognuna delle persone che ci lavora divampi per riaccendere la speranza. Scrivo di Sophia come fosse una persona e come se il suo corpo fosse formato da tutte le persone che ne fanno parte, ciascuna con la sua propria funzione irripetibile e indispensabile. In Sophia, le differenze sono ricchezza. Ognuno ha libertà di esprimere con rispetto il proprio sentire e durante le riunioni c’è un allenamento costante all’umiltà di accogliere quello che va e che non va per custodire le relazioni e lavorare veramente a servizio dell’altro. Se c’è qualche distacco, avviene in modo naturale perché può venir meno la comunione di intenti, o può nascere il desiderio di seguire una nuova strada. Era così quando ho iniziato, è così oggi, ancor più radicato.
Sperimento che quando mi immergo di nuovo in contesti pieni di bene, e non mi lascio sopraffare dalle incombenze e preoccupazioni giornaliere, quel fuoco riprende corpo. Guardare alla bellezza e, come diceva il Papa lo scorso novembre, imparare a non “truccarsi l’anima” e ad amarci così come siamo, perché Dio ama proprio così. Ogni deviazione da quell’amore lì è una devianza. Anche la più piccola, quella che sembra innocua. L’amichetto del cuore di mio figlio in prima elementare gli ha detto un giorno “se ti piace Gesù, non puoi essere mio amico”. Lui, molto scosso insieme a me impietrita e un po’ in allarme – io che ho scritto libri con un musulmano e un induista – forse preferiva rinnegare tutto pur di tenersi stretto l’amico, perché lui sa amare. E mi chiedo, tutti i bambini sanno amare? Come si fa a insegnare ad odiare, ad odiarsi? Per fortuna, mio figlio nel suo primo patto scout, nella sua prima piccola comunità, ha promesso di essere amico di Gesù per sempre, al suo amichetto vuole sempre un gran bene e io sono fiera di lui. E la speranza mi ritorna, forte.
Caterina
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