Sono Caterina e vi racconto l’eco di Sophia nella mia avventura di mamma
Mio caro diario,
è il mio primo anno alle elementari, o scuola primaria per dirla alla moderna maniera. Il mio primo figlio ha iniziato quest’anno, appunto, in una piccola classe composta per lo più dai suoi amichetti di materna. Pensavo di dovere fare i conti soltanto con i compitini, letture e scritture e la piaga giornaliera del “non voglio andare a scuola”. Invece mi sono imbattuta in questioni esistenziali ben più elevate. L’amichetto del cuore gli ha detto un giorno “se ti piace Gesù, non puoi essere mio amico”. Lui molto scosso me lo raccontava con prudenza, forse paura, come se capisse molto bene che in quella frase ci fosse qualcosa che non andava. Non sono bastati anni e anni da catechista, né la convivenza lavorativa e il rapporto affettivo con Mor e Dullal, musulmano uno, induista l’altro; non è bastata la mia fede incrollabile, perché con un bel commento bacchettone, del tipo ”Gesù non si rinnega”, ho fatto crollare lui in un pianto disperato. Non me lo aspettavo, non mi aspettavo che lui fosse capace di un amore così tenero e semplice nei confronti di un amico. E sono rimasta ad accarezzargli la testa senza sapere come andare avanti, perché ogni parola in più, invece di avvicinarlo, lo portava lontano. La soluzione lui l’aveva già trovata, ed era quella di non toccare più l’argomento con l’amichetto, così non ci sarebbe stato modo di rompere l’amicizia. È passato qualche giorno, ho lasciato depositare la cosa per lui, mentre in me, un po’ scoraggiata, fremeva la voglia di fare qualcosa. Ne ho parlato con le sue maestre per chiedere di vigilare sul loro rapporto, visto che anche nei disegni che i due amici si scambiavano c’erano chiari segni di decisioni “unilaterali”. In realtà abbiamo ragionato sul rischio di isolamento che frasi del genere possono portare (di isolamento di chi le dice, non di chi le riceve) e quindi sulla proposta di affrontare più spesso argomenti sull’inclusività.
A distanza di qualche tempo ho provato a parlare con mio figlio dicendogli che ci si può volere bene lo stesso a prescindere dai gusti e dalle diversità, gli ho raccontato delle mie amicizie care e che, con serenità, poteva dire all’amico che voleva bene sia a Gesù che a lui, e che se a lui non stava bene, il suo affetto rimaneva comunque immutato. Essendo stato un caso isolato, non ho cercato il confronto con la madre, con cui mi sono sempre scambiata sorrisi e saluti gentili, perché non volevo creare imbarazzo e ancor più distanza, cosa che si sarebbe potuta ripercuotere sulla relazione tra i due bambini. Sono bambini, e la gentilezza, le azioni e l’apertura fanno molto di più di mille parole. Per fortuna, o meglio per grazia, in questo frangente mi è venuta in aiuto anche la parrocchia: mio figlio nel suo primo patto scout, nella sua prima piccola comunità, ha promesso di essere amico di Gesù per sempre, al suo amichetto vuole sempre un gran bene e io sono fiera di lui.
Intanto, mi chiedo: come si fa a dare loro gli strumenti per aiutarli a dialogare con rispetto con i pari, senza intromettersi, insegnando a non prevaricare e a non essere prevaricati? Eh, una bella sfida a cui non sono sempre pronta e che mi trovavo ad affrontare già nei panni di educatrice e formatrice in Sophia, quando non ero ancora mamma. E posso dire ora quanto sia sempre più sfidante e delicato lavorare con bambini, adolescenti e giovani, in qualsiasi veste, da genitori, educatori, formatori, datori di lavoro. C’è bisogno di un lavoro corale, e di cura continua. Quello che Sophia fa a più livelli, con grande sforzo, con proposte sempre nuove e con dedizione profonda, sempre in confronto con la comunità educante dei giovani che segue.
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